BENGA
DIARY OF AN AFRO WARRIOR (Tempa/Goodfellas)
 
SUONABILE Può il genere dubstep affrancarsi dalla condizione di singolo per elevarsi a quella di album? Lo stiamo capendo più che mai in questo periodo e si direbbe di sì; ma fino a un certo punto. Gli album per eccellenza del genere sono quelli più aperti, eclettici e meno puristi, ossia i due a firma Burial. Ma ora tocca a Benga, uno dei grossi talenti della scena, che sicuramente ha dalla sua una potenza sonora impressionante: in certi passaggi i bassi scuotono l'ascoltatore come poche altre volte capitato, mettendo in pratica una delle caratteristiche principali del genere (basta assistere a un live set per credere). Sulla lunga distanza però, presupponendo quindi un ascolto da sottofondo, tale approccio musicale può anche risultare stucchevole. Una buona metà dei brani dimostra una vita propria - su tutti Night - ma gli altri sembrano pensati per fare da corredo. Insomma sarebbe stato meglio per Benga concentrare in meno brani tutta la potenza espressa nei più incisivi. (l.gr.)
 
ARI BROWN
LIVE AT THE GREEN MILL (Delmark)
 
GUSTOSO Terzo lavoro edito per Delmark dal sassofonista Ari Brown, che non tradisce le attese. Brown propone il proprio sound tanto senza innovazioni, tanto senza sbavature e che proprio per questo affascina ancora oggi come ieri. Ad accrescere il pathos di cui è capace, ben occorre quindi questo live registrato presso lo storico club chicagoano nel giugno 2007. La solida seziona ritmica organizzata da Avreeayl Ra, tesse ottimamente le strutture, mentre il leader le usa (Richard’s Tune), disfa (Two Gun V) e ricostruisce (Kylie’s Lullaby, Evod) a proprio piacimento. Da avere. (g.di.)
 
RAHEEM DEVAUGHN
LOVE BEHIND THE MELODY (Jive/Sony-Bmg)
 
GUSTOSO Giovanissimo ma preparatissimo, Raheem Devaughn è fra le stelle più fulgide della scena nu soul statunitense. Intanto non scimmiotta affatto i rapper, e già di per sé è un bel passo in avanti, e poi si ispira modesto ma sicuro all'antica scuola soul di fatto insuperata, riarrangiandola il giusto senza forzature. Magari con l'aiuto di produttori come Big Boi (degli Outkast) o Floetry. Bello e ispirato questo suo secondo lavoro con l'inno al sesso femmnile di Woman, la sensuale Customer e la più tenebrosa Can We Try Again? (s.cr.)
 
JOEL HARRISON
THE WHEEL (Intuition/Family Affair)
 
GUSTOSO Non necessariamente i progetti ambiziosi devono andare a parare nella vacua pretenziosità: dipende da come si mette il primo passo, il resto è conseguenza. Il chitarrista Joel Harrison aveva in mente un paio di cose: la prima, evitare di fare, come suggeriscono le case discografiche, dieci volte lo stesso disco. La seconda: andare a verificare di persona quanto spazio esista ancora per mettere in dialogo organici «classici » e organici «jazz». Con un debito dichiarato a priori, l’opera della «terza corrente» di Gunther Schuller, mezzo secolo fa. Qui c’è un quartetto d’archi, e un quartetto jazz con le belle voci solistiche di David Binney, contraltista, e Ralph Alessi, tromba. Suite in sei movimenti davvero ariosa e ben costruita, nervosa al punto giusto, ben scritta e con gli spazi per i solisti ritagliati a dovere, senza che suonino come mera giustapposizione. (g.fe.)
 
ISLANDS
ARM’S WAY (Rough Trade/Self)
 
GUSTOSO A sentirli non si direbbero canadesi, gli Islands hanno, musicalmente parlando, un approccio molto più british, che si evince senza ombra di dubbio in questo loro secondo lavoro, tre anni dopo l’esordio. Un indie pop melodico che fa pensare in qualche passaggio ai Super Furry Animals, anche se non mancano riferimenti a band dalla identica provenienza territorilale come i Fiery Furnaces. Alcuni brani - The Arm, Life in Jail e In the Rushes -, si elevano particolarmente in un complesso di spessore già di per sé molto interessante. (p.ro.)
 
 
 

n. 15 del 12 04 2008

 

ULTRASUONATI
stefano crippa gianluca diana guido festinese luca gricinella guido michelone luigi onori roberto peciola patrizio roman

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PANIC AT THE DISCO
PRETTY ODD (Warner Bros)
 
SUONABILE Indie rock dal retrogusto mooolto british che arriva però dai sobborghi di Las Vegas, per essere precisi dalla periferia americana di Summerslin. Tre anni fa il boom da oltre un milione di copie con A Fever You Can't Sweat Out, ora il ritorno con quindici canzoni dall'incedere piacevole ma un po' altalenante e che alla fine, diciamolo francamente, tendono a saturare. Troppa generosità, ne bastavano giusto una decina... (s.cr.)
 
FUCK BUTTONS
STREET HORRRSING (Atp)
 
GUSTOSO Sei brani compongono questo disco di un duo britannico che definire «disturbato» non risulta certo un’esagerazione. La base di partenza è una sorta di electro-ambient-noise, con un tratto distintivo che è la reiterazione dei loop(ovviamente però diversi per ogni traccia): ripetitivi, corrosivi, tesi. Loop che creano un crescendo con l’aggiunta di suoni spesso aggressivi, per magari sfociare poi in un’armonia rilassante, ma è solo per qualche attimo, perché i Fuck Buttons sono lì, subitopronti a ristabilire il senso delle cose così come le vedono (e in verità non pare abbiano una visione particolarmente rassicurante), lanciandosi in elucubrazioni vocali che sembrano giungere da un vecchio nastro consumato dove qualcuno ha registrato il suo terrore. Non sappiamo se tutto questo possa farvi pensare a un disco da evitare accuratamente, il nostro consiglio è invece quello di ascoltarlo, ascoltarlo molto attentamente, e siamo pronti a scommetere che verrete catturati anche voi dalla follia di Andrew Hung e Benjamin John Power, in arte Fuck Buttons. (r.pe.)
 
REM
ACCELERATE (Warner Bros)
 
IMMENSO Ventotto anni di carriera, 80 milioni di copie vendute e la forza di rimettersi ancora in gioco. Michael Stipe e soci idee chiare le hanno sempre avute e anche per questo nuovo lavoro non tradiscono le aspettative del pubblico. Canzoni sporche, essenziali e senza fronzoli dove ritorna a sentirsi forte la batteria, di fatto abbandonata undici anni fa quando il batterista Bill Berry uscì dalla band senza mai essere ufficialmente rimpiazzato. Ottima poi la produzione di Jacknife Lee scelto fra quelli più vicini - come affinità - a Scott Litt, loro produttore storico. Il risultato sono undici canzoni, essenziali anche nella durata (34 minuti) che corrono veloci e non ti mollano mai, sentire il singolo Supernatural Superserious per credere, con l'eccezione di Until the Day Is Done, una ballata perfetta come solo loro sanno creare senza sbavature di sorta. Ma c'è spazio anche per la complessità, Hollow Man è costruita su un contrasto ripetuto fra chitarra e piano, e i cori di Mike Mills si fanno sentire avvolgenti sulla voce di Stipe. Imperdibile. (s.cr.)
 
RICCARDO PITTAU CONGREGATION
V IV MMV DEATH JAZZ (Improvvisatoreinvolontario)
 
IMMENSO Trombettista trentacinquenne, Pittau è musicista da seguire per l’originalità e la vastità della poetica, abbinate a una classe strumentale notevole e a un linguaggio graffiante e fuori schema. Partito da un paese della Sardegna (Guasile, nella sottoregione di Trexenta) vi è tornato dopo una lunga e seminale esperienza bolognese. A Guasile nell’arco di diversi anni ha creato un rapporto di collaborazione con quelli che chiama «artisti locali ed emigrati dalle idee affini (musicisti, poeti, scrittori)»; con essi ha formato una sorta di congregazione. Fa parte dell’Enzo Favata Tentet con cui ha registrato The New Made in Sardinia e il progetto Voyage en Sardaigne. La congregazione convocata per V IV MMV Death Jazz vede Gianni Gebbia (sax alto e rumore bianco), Paolo Angeli (chitarra sarda preparata), Vincenzo Vasi (basso elettrico, theremin e voce) e Francesco Cusa (batteria e percussioni), con evidenti tracce delle esperienze felsinee. 26 frammenti - spesso creati collettivamente - costituiscono un affresco a tinte forti, dai tratti espressionistici. Una musica libera e provocatoria, sperimentale e libertaria (Fox Trottu, The Man in Lollove, B Folk) in cui Pittau sembra ereditare lo sperimentalismo di Don Cherry e Lester Bowie. (l.o.)
 
PARAMOUNT STYLES
FAILURE AMERICAN STYLE (Cycle/Goodfellas)
 
SUONABILE Paramount Styles è il nuovo progetto solista di Scott McCloud, leader e vocalist dei Girls Against Boys, una delle realtà post-punk più influenti degli anni Novanta. Mc-Cloud afferma che la sua intenzione era realizzare un disco per chitarra acustica e voce (eccone un altro?!), poi si è reso conto che effettivamente non è quello il suo «style». E così ha raccolto alcuni amici con i quali ha messo su una vera e propria band che suona però un rock abbastanza lontano - diremmo molto, invero - dalle sonorità più «spinte» della vecchia formazione, un rock quasi «accomodante», per certi versi, molto «american style», come recita una parte del titolo. L’altra parte dice di un «fallimento», beh, questo no, ma certo non un capolavoro. Brani migliori One Last Surprise e la successiva These Starry Nights. (r.pe.)
 
 
CHRIS REA
THE RETURN OF THE FABULOUS HOFNER BLUENOTES (Jazzee Blue/Edel)
 
GUSTOSO Il ritorno del cantautore britannico, di origini irlandesi e persino italiane, è all’insegna di un progetto insolito nell’attuale panorama rock: tre cd dedicati alla storia, in musica, dei Delmonts (disco 3), l’ultima grande band strumentale degli anni Cinquanta, che, con il nome di Hofner Bluenotes (dischi 1 e 2), diventerà un gruppo di culto nel genere blues per il decennio successivo. Rea si diverte a cantare - e a suonare magnificamente la chitarra slide - una serie di canzoni che variano dal r’n’r al boogie, dal rockabilly alla ballad, rivangando una memoria collettiva e un passato formidabile. (g.mic.)
 
MATTHEW SHIPP, GUILLERMO E. BROWN
TELEPHONE POPCORN (Nu Bop Records/Ird)
 
GUSTOSO Colleghi nel gruppo del sassofonista David Ware, uno che del free jazz ha conservato l’urgenza e la potenza, anche se non sempre l’acutezza, il pianista Shipp e il batterista Brown sono anche ottimi amici: condizione necessaria per affrontare un disco come questo, dove c’è bisogno di un sovrappiù di concentrazione e rilassatezza. Shipp propone il suo tocco percussivo e smaliziato, erede di Waller, Monk, Taylor e Waldron, Brown lascia perdere piatti e pelli e interloquisce solo con il laptop e altra minuteria elettronica, spesso intervenendo direttamente sul suono dell’amico. Il risultato è splendido, un gioco festoso e trionfante di timbri e ritmi che si inseguono e che davvero fa onore a una figura di precursore molto amata dai due, Sun Ra. (g.fe.)
 
JOHN SINCLAIR & HIS BLUES SCHOLARS
DON'T START ME TALKIN' (Hill Country rec.)
 
IMMENSO I suoi Blues Scholars lo seguono fedelmente da oramai tre lustri. Loro tracciano le direzioni musicali, mentre lui inanella storie e narrazioni dell’«altramerica». John Sinclair e il suo spoken word ritornano, più belli e più forti che pria. Nove brani in cui le sonorità hill country si confrontano con il Chicago sound, includendo un intro solo voce del King Biscuit Time. Con l’apporto di calibri come Jimbo Mathus e Jim Dickinson. E le liriche come di consueto, come nel suo stile, con meraviglioso e appassionato trasporto: alla John Sinclair! (g.di.)
 
ANGUS STONE, JULIA STONE
A BOOK LIKE THIS (Capitol/Self)
 
GUSTOSO Fratello e sorella, da Sidney, con la complicità di Fran Healy dei Travis, rilasciano questo album delicato, il cui tratto distintivo sono le sonorità acustiche e le due voci, quella di Angus, morbida e pastosa, quanto quella di Julia spazia dalla raffinata dolcezza alle tonalità acute che riportano alla mente Björk. Il disco dà il meglio nella parte centrale con tre brani in successione, Hollywood, la title track e Silver Coin, impreziositi da una azzeccata sezione d’archi. Quello che suole dirsi un buon disco. (r.pe.)